Cinquant’anni fa, il 29 aprile 1975, un ragazzo di appena 18 anni, Sergio Ramelli, moriva dopo 47 giorni di agonia in un letto d’ospedale a Milano. La sua colpa? Essere un militante del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano (MSI), e aver scritto un tema scolastico in cui criticava le Brigate Rosse e il silenzio istituzionale sulla morte di due militanti di destra. Quel tema, affisso in bacheca e bollato come “fascista”, segnò l’inizio di un calvario di minacce, umiliazioni e violenze, culminato in un’aggressione brutale: un commando di Avanguardia Operaia lo colpì a colpi di chiave inglese sotto casa, in via Paladini, il 13 marzo 1975. Oggi, a mezzo secolo di distanza, la storia di Sergio Ramelli non è solo un ricordo, ma un simbolo che continua a scaldare gli animi, a dividere, a interrogare. Perché la sua vicenda ci parla ancora, e forse più che mai, di un’Italia incapace di fare pace con il proprio passato.
Sergio non era un fanatico. Era un adolescente con i capelli lunghi, tifoso dell’Inter, innamorato della sua ragazza e della sua città, Milano. Studiava chimica industriale all’ITIS Ettore Molinari, un istituto che, negli anni di piombo, era un campo di battaglia ideologica. Qui, gruppi di estrema sinistra come Avanguardia Operaia, Lotta Continua e il Movimento Studentesco dominavano, spesso con la violenza. Sergio, iscritto da poco al Fronte della Gioventù, non nascondeva le sue idee, ma non era un provocatore. Non aveva precedenti penali, non era coinvolto in risse o azioni violente. Eppure, il suo tema scolastico – un testo che oggi sembrerebbe un normale esercizio di critica – lo trasformò in un bersaglio. Dopo quel tema, Sergio fu sottoposto a un’umiliazione sistematica. Fu prelevato a forza dalla classe, sottoposto a “processi” sommari organizzati dagli studenti di sinistra, con la complicità di alcuni professori e l’indifferenza della preside. Fu aggredito da decine di ragazzi, costretto a cancellare scritte neofasciste sotto minaccia. La scuola, che dovrebbe essere un luogo di crescita, divenne per lui un inferno. E il 13 marzo 1975, mentre legava il motorino sotto casa, un gruppo di otto militanti di Avanguardia Operaia – molti dei quali studenti di medicina – lo colpì con chiavi inglesi Hazet 36, pesanti e letali, mirando alla testa. Sergio crollò a terra, il volto coperto di sangue, ma i suoi aggressori continuarono a infierire. Dopo un’agonia di 47 giorni, morì. I suoi funerali, nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, videro la presenza di Giorgio Almirante, segretario dell’MSI, mentre il Consiglio comunale di Milano accolse la notizia della sua morte con un applauso che ancora oggi gela il sangue.
Ci vollero dodici anni per identificare e condannare i responsabili. Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari furono riconosciuti colpevoli di omicidio volontario solo nel 1990, dopo un processo tormentato da depistaggi e reticenze. Alcuni di loro, come Antonio Belpiede, divennero medici di successo; altri, come Claudio Colosio, hanno ricoperto ruoli pubblici fino a tempi recenti. Nel 1987, cinque degli assassini inviarono una lettera di scuse ad Anita Ramelli, la madre di Sergio, consegnata tramite un prete. Ma per Anita, quella lettera, arrivata troppo tardi e senza un confronto diretto, fu solo un ulteriore dolore.
La memoria di Sergio Ramelli è stata per decenni un terreno di scontro. Per la destra, è un martire, vittima dell’odio comunista e dell’antifascismo militante. Per una certa sinistra, è un simbolo scomodo, spesso liquidato con un “però era fascista”, come se questo potesse giustificare un linciaggio. Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato. Nel 2014, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, di centrosinistra, partecipò alla commemorazione di Ramelli, rompendo un tabù. Oggi, anche il sindaco Beppe Sala rende omaggio a Sergio nei giardini a lui intitolati in via Pinturicchio. Il 2025, anno del 50° anniversario, ha visto iniziative istituzionali di alto profilo: un francobollo dedicato a Ramelli, vie intitolate in diversi comuni lombardi, un convegno a Palazzo Lombardia con interventi di Giorgia Meloni, Attilio Fontana e Ignazio La Russa. La premier, in un videomessaggio, ha definito la vicenda di Sergio “un pezzo di storia d’Italia con cui tutti, a destra e a sinistra, devono fare i conti”.
Eppure, la pacificazione è lontana. Ogni anno, il corteo neofascista organizzato da gruppi come Forza Nuova, Lealtà-Azione e CasaPound, con saluti romani e simbologie controverse, riaccende le polemiche. Nel 2025, si attendono oltre 2.000 militanti per la fiaccolata in via Paladini, e l’Osservatorio democratico sulle nuove destre ha denunciato la presenza di simboli come la runa Tyr, associata al nazismo. Parallelamente, il murale che ricorda Sergio è stato più volte vandalizzato, l’ultima volta nel gennaio 2025 con la scritta “Fasci appesi”. Questi gesti, come i saluti romani, non fanno che perpetuare l’odio, trasformando il ricordo di un ragazzo in un’arma ideologica.
La storia di Sergio Ramelli non è solo un capitolo degli anni di piombo. È un monito su cosa succede quando il conflitto politico diventa intolleranza, quando le idee giustificano la violenza, quando un ragazzo di 18 anni diventa “il nemico” solo per ciò che pensa. Oggi, in un’Italia polarizzata, dove i social amplificano l’odio e le piazze tornano a scaldarsi, la vicenda di Sergio ci costringe a guardarci allo specchio. Siamo davvero così lontani da quegli anni? Quando leggiamo commenti che invocano la “giusta violenza” contro chi la pensa diversamente, quando vediamo monumenti imbrattati o cortei che celebrano il passato anziché interrogarlo, non stiamo forse ripetendo gli stessi errori?
Sergio amava l’Italia, scriveva Giorgia Meloni, “senza odio, senza arroganza”. Forse è questa la lezione più potente della sua storia: si può credere in qualcosa senza odiare chi crede in altro. Ma per imparare questa lezione serve coraggio, lo stesso che Sergio mostrò nel non piegarsi alle minacce. Serve smettere di usare la sua memoria come una clava, sia a destra che a sinistra. Serve, soprattutto, riconoscere che Sergio non era solo un militante: era un ragazzo, con sogni, paure, speranze, strappato alla vita da un’ideologia che non lasciava spazio al dialogo.
A 50 anni dalla sua morte, il modo migliore per onorare Sergio Ramelli non è un corteo con saluti romani né un murale imbrattato. È fare di lui un simbolo di riconciliazione. Le istituzioni stanno facendo la loro parte: il francobollo, le vie intitolate, il convegno con Enrico Ruggeri e Giuseppe Culicchia mostrano un’Italia che prova a ricordare senza dividere. Ma tocca anche a noi, cittadini, studenti, elettori, smettere di vedere in Sergio un “fascista” o un “martire”, e riconoscerlo per ciò che era: una vittima innocente di un’epoca che non deve tornare.
Condividete questa storia. Parlatene con i vostri amici, con i vostri figli. Leggete i libri su Sergio, da “Cuori neri” di Luca Telese a “Uccidere un fascista” di Giuseppe Culicchia. Andate a vedere il murale in via Paladini, non per rabbia o nostalgia, ma per riflettere. Perché la memoria di Sergio Ramelli non appartiene a una fazione: appartiene all’Italia. E solo facendola nostra, tutti insieme, potremo dire di aver imparato qualcosa da quel 29 aprile 1975.
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